Sbattono gli Intubati in Prima Pagina. I Feti Però Sono Vietati


Nota di

Per rispondere a qualche osservazione ricevuta, è bene precisare che, ovviamente, non si intende negare l’esistenza dell’epidemia di Covid. Si afferma invece che, su di essa, le élites economico-culturali progressiste che dominano il mondo ed hanno precisi nomi e cognomi, stanno costruendo un vero e proprio terrorismo mondialista. Un po’ come la grande paura diffusa dai rivoluzionari francesi fin dall’estate del 1789 per stroncare ogni possibile resistenza, questo nuovo terrore prelude ad ulteriori e significativi passi in avanti dell’opera di demolizione del poco – veramente poco – che ancora rimane di una civiltà naturale e cristiana.


Per i media il dolore è chic e serve da «monito» per salvare vite. Eppure giudicano «violento» chi si batte per i bimbi mai nati.

Tratto da La Verità

di Mario Giordano

Mostrate quei corpi. Mostrate . le terapie intensive. Mostrate l’agonia. L’atroce sofferenza. Mostrate la morte che avan­za e mostratela senza pietà. Il voyeurismo del dolore diven­ta all’improvviso chic e si guadagna un’intera pagina su Repubblica, «Quelle foto servono come monito», ci ricorda il quoti­diano a tutta pagina. Dal Sessantotto a Savonaroladalle battaglie sulle libertà al «ri­cordati che devi morire» per sostenere le restrizioni nell’era del coronavirus: la campa­gna del terrorismo mediatico non si ferma davanti a nulla, neppure davanti allo strazio dei corpi che stanno spirando. È un terrorismo, oseremmo dire, all’ultimo respiro.

Ma se «serve da monito», va bene, no? Se serve a convincerci a restare in casa, a rinunciare alla nostra vita, a obbedire pure alle norme più assur­de, allora non c’è problema, anzi. La pubblicazione di mo­ribondi è benedetta dagli dei del giornalismo. Anche se im­maginiamo che ciò avvenga senza il consenso dei medesi­mi moribondi, a meno che qualcuno dei fotoreporter dell’agonia, nuovi eroi dell’im­pegno civile, tra un clic e l’al­tro, abbia avuto modo di far firmare la liberatoria ai pa­zienti in terapia intensiva. Nel caso, avrei un dubbio: è peggio lo scatto a insaputa del moren­te o il consenso estorto al me­desimo tra un rantolo e l’al­tro? In entrambi i casi, co­munque, leggendo ieri Repub­blica, si capisce che la foto in terapia intensiva è cosa buona e giu­sta. «Serve da mo­nito». E tanto ba­sta.

Addirittura, per avere da parte un repertorio di moni­ti pronti alla biso­gna, abbiamo sco­perto che c’è chi fa collezioni delle ma­cabre immaginette. Esiste un appo­sito festival, uno dei più noti d’Italia, il «Cortona on the Move» (chic a co­minciare dal no­me), che «è diventa­to di fatto l’archivio nazionale dell’im­maginario pande­mico». Niente me­no. E ora qui «arrivano soprattutto fotografìe di questo genere». Non vediamo l’ora di vedere la mostra com­pleta. Immaginiamo che sarà uno spasso, in ogni caso molto chic. Chissà che non s’inventi­no anche il concorso a premi «Immortala la morte», oppure «L’ultimo scatto», oppure «Fo­to intense, terapie intensive». Sarebbe un grande successo nazionale. E sicuramente ser­virebbe da monito. Dunque sarebbe solo da applaudire.

Resta solo un dubbio: se le foto choc che servono da mo­nito sul coronavirus vanno be­ne, perché le foto choc che ser­vono da monito su altri temi, invece, portano diritto alla go­gna (quando va bene) o in tri­bunale (quando va meno be­ne)? Faccio un esempio: le foto choc dei bambini mai nati, spesso usate per riflettere sul valore della vita. Ecco: uno le pubblica pensando che serva­no da monito. Invece no: quel­le sono un orrore. Le foto di chi sta morendo in terapia inten­siva sono un’operazione di in­formazione e sensibilizzazione. Le foto di un bimbo che vorrebbe nascere invece sono una schifezza da vergognarsi. Ma perché? Chi l’ha detto? Do­ve sta scritto?

Eppure così va il mondo e nessuno ormai nemmeno se ne stupisce più. Il 12 maggio 2006, per esempio, il Gazzetti­no di Venezia, diretto da Luigi Baciallipubblicò la foto di un bimbo che era stato ucciso in­sieme alla mamma, mentre era ancora nel suo grembo. La mamma si chiamava Jennifer. Era al nono mese di gravidan­za, fu seppellita viva dal suo fidanzato, che ebbe la condan­na solo per un omicidio. «L’omicidio è duplice, c’è anche il bimbo», protestarono i fami­liari della ragazza e mostraro­no il corpicino senza vita. Ne venne fuori uno scandalo. «Gravissima offesa alla digni­tà della persona e violazione dei principi deontologici del giornalismo», tuonò il Garan­te per la privacy. E l’Ordine dei giornalisti mise sotto proces­so non soltanto Baciallima anche il nostro direttore Mau­rizio Belpietro che ebbe il tor­to di riprendere la notizia. La foto choc, in quel caso non ser­viva da monito.

Sbatti l’intubato in prima pagina: «Un monito». Il feto invece no.

Così come, evidentemente, non serviva da monito la foto di Michelino, il bimbo che l’as­sociazione Pro Vita fece stam­pare sui cartelloni pubblicitari per invitare a riflettere sull’aborto: il Comune di Roma fece rimuovere l’affissione. «È un atto di violenza». Così come sono sta­ti giudicati un «atto di violen­za» i due feti pubblicati nel giugno 2020, sempre da Pro Vita, con la domanda: «Quale dei due è concepito da uno stupro?». A prima vista sem­brerebbe un’immagine choc che serve da monito per riflet­tere su un tema importante come l’aborto, comunque la si pensi sul tema. Invece no. Quelle non sono immagini choc che servono da monito. Quelle sono «atti di violenza». Vai a capire il perché.

Per altro ci risulta che, al massimo dovrebbe essere l’e­satto contrario. Infatti, men­tre le foto dei bimbi mai nati si vedono soltanto una volta ogni tanto e quindi possono determinare l’effetto choc, co­stringendo chi le vede a riflettere sul tema, le im­magini delle tera­pie intensive ormai sono così diffuse che generano soltanto rigetto. Sono le stesse persone intervistate da Re­pubblica che lo confessano fra le righe. Il fotografo di guerra Alessio Romenzivincitore del World press photo, paragona le immagini dei Covid morenti a quelle che si vedono sui pac­chetti di sigarette, incapaci or­mai di avere impatto sulle per­sone. E la dottoressa Francesca Mangiatordiuna delle prime a marzo a scattare foto diventate simbolo della pan­demia, dice: «Ormai mi rifiuto di vedere quel genere di foto­grafìe. Mi sembra che troppe fotografie terrorizzanti fini­scano per essere un boome­rang». Parole sante che però finiscono seppellite sotto il ti­tolo a caratteri cubitali: «Quelle foto del dolore nelle terapie intensive servono da monito». Si capisce: la linea della paura non tollera incer-tezze né tentennamenti. Avanti, sbatti il mostro, par­don il monito, in prima pagi­na. Meglio se agonizzante, però.



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